+ o – il sesso confuso

+ o – il sesso confuso. racconti di mondi nell’era aids è un film documentario. Parla di storie legate alla pandemia più spaventosa del nostro tempo, l’aids.
Parla della confusione che ha generato sulla sessualità. Parla di racconti esistenziali che si intrecciano con la storia di un’epoca su questo pianeta.
Parla e racconta +o- la verità di ciò che è accaduto da queste parti.

Premi

Premio internazionale
Emilio Lopez

sezione
Panorama italiano

4° Festival del documentario d’Abruzzo
Pescara, 21-25 giugno 2010

Miglior documentario

24° Festival Mix Milano
Milano, 22-29 giugno 2010

Crediti

+o- il sesso confuso

Racconti di mondi nell'era aids

un film di Andrea Adriatico e Giulio Maria Corbelli

testimonianze di
Fernando Aiuti, Adriana Ammassari, Guglielmo Campione, Vincenzo Capuano, Alessandra Cerioli, Fiore Crespi, Barbara Ensoli, Goffredo Freddi, Pol G, Franco Grillini, Rosaria Iardino, Raffaele Lelleri, Catia Lucentini, Daniela Minerva, Mauro Moroni, Cristina Mussini, Pier Cesare Notaro, Massimo Oldrini, Andrea Pini, Beppe Ramina, Jessica Rossetti, Roberto Sardelli, Diego Scudiero, Vincenzo Sparagna, Thomas Trabacchi, Livia Turco, Stefano Vella, Luca Zanesi

punti sul nostro tempo di
Marco Pustianaz, Piersandro Pallavicini, Stefano Benni, Studenti del Liceo Ginnasio Statale “Luigi Galvani” di Bologna

operatori Raffaella Cavalieri, Carlo Strata

suono in presa diretta Fabrizio Tito Cabitza, Enrico Medri, Ivan Olgiati, Roberto Passuti

suono in post-produzione Diego Schiavo

montaggio Roberta Bononi
con la collaborazione di Andrea Scano
allievi di OFFICINEMA – LA BOTTEGA DEI MESTIERI della CINETECA DI BOLOGNA

produzione esecutiva Saverio Peschechera
con la collaborazione di Mariaconcetta Mercuri

ufficio stampa Studio Morabito

prodotto da Daniela Cotti e Monica Nicoli
per Cinemare

con il sostegno di Merck Sharp & Dohme, Emilia-Romagna Film Commission

un ringraziamento a Cineteca di Bologna

PREMI

  • Premio internazionale Emilio Lopez sezione “Panorama italiano”
    4° Festival del documentario d’Abruzzo
    Pescara, 21-25 giugno 2010
  • Premio come miglior documentario
    24° Festival Mix Milano
    Milano, 22-29 giugno 2010

 

PARTECIPAZIONI A FESTIVALS E RASSEGNE

  • 26 febbraio 2010, ore 20.00
    Visioni Italiane
    Cinema Lumière, Bologna
  • 17 aprile 2010, ore 19.00
    Festival del cinema europeo
    Santalucia Cityplex, Lecce
  • 9 giugno 2010, ore 20.30
    Triennale di Milano
    “Frammenti sociali”
    Teatro Agorà, Milano
  • 19 e 23 giugno 2010
    Arcipelago
    Multisala Intrastevere, Roma
  • 23 giugno
    Festival del documentario d’Abruzzo
    Pescara
  • 26 giugno 2010
    24° Festival Mix
    Teatro Strehler, Milano
  • 1 ottobre 2010
    Annecy Cinéma Italien
    Bonlieu Scène nationale, Annecy, Francia
  • 16 agosto 2010
    VI Cinema Mostra Aids
    Espaco Unibanco de Cinema,
    San Paolo Brasile
  • 27 giugno 2010
    Flaiano Film Festival
    Cinema Massimo, Pescara
  • 15 dicembre 2010
    Festival Omovies
    Cinema Academy Astra, Napoli
  • 13 febbraio 2011
    Festival Des images aux mots
    Cinema Utopia
    Toulouse, Francia
  • 26 giugno 2011
    Sicilia Queer Filmfest
    Cinema Edison, Palermo

Soundtrack

Colonna sonora originale composta da Massimo Zamboni
Il brano Nove ore interpretato da Angela Baraldi è acquistabile su Itunes

Home video

Acquista il dvd del film presso il sito www.teatridivita.it

Rassegna stampa

Quotidiani

(…) Ma basta la realtà a rovesciare lo sguardo? Vorremmo chiederlo a Andrea Adriatico che firma – al Forum – Il vento, di sera sceneggiatura scritta insieme a Stefano Casi, protagonisti Corso Salani e Francesca Mazza, apparizioni stranianti di Giovanni Lindo Ferretti, Ivano Marescotti, Giancarlo Cauteruccio. Adriatico e Casi vengono dal teatro, lavorano a Bologna da anni con i Teatri di vita (produttori del film), anche loro nell’ondata di scambio scena-schermo che sta trasformando in ricchezza da anni – basta pensare a Mario Martone – il cinema italiano. Ma Il vento, di sera non è un film teatrale, piuttosto lavora sulla teatralità, spazi vuoti di una Bologna notturna, straniata, spettrale, vuota, quasi irriconoscibile. Poi i corpi, la scrittura delle immagini che scivola sugli attori, sceglie primi piani, modella sulle sfumature delle loro emozioni ogni inquadratura. La storia racconta il dolore di una perdita, Paolo (Salani) che perde in un istante l’amore della vita, ammazzato sotto casa perché arrivato troppo tardi o troppo presto vedendo qualcosa che non avrebbe dovuto. Il punto è un altro: perché per raccontare un sentimento profondo e universale c’è stato bisogno di mettere sul film l’etichetta dell’attualità? L’inizio è un gioco di SMS, messaggi in codice che preparano un delitto. La vittima possibile uno dei tre uomini, Paolo, il suo ragazzo, un altro uomo che torna a casa in bicicletta. Abitano vicini, stesso cortile. E’ lui la vittima, scopriremo che è un uomo del governo e bici e Bologna ci portano naturalmente a Biagi. Ma Il vento, di sera non è un film sul terrorismo in Italia oggi, perché la cronaca scompare subito dopo, lasciando posto al privato, al dolore appunto, alla fatica di quel rapporto odiato dai genitori del ragazzo, non compreso dalle istituzioni, inesistente al mondo perché non matrimonio tradizionale. Forse la politica sta qui, dove c’è verità. Il resto è solo forzatura.

Inizia da Bologna, proseguendo poi a Roma e a Milano, al Mexico, la “tournée” di un film bello, civile e indipendente Il vento, di sera, applaudito al Forum di Berlino e diretto da Andrea Adriatico col supporto di un’organizzazione e un’esperienza teatrali.
Lanciato come una glossa sul caso Biagi, in realtà il film parte con un omicidio bolognese simile a quello, ma poi diventa altro, indagando sui riflessi che ha la morte di un testimone. Così stiamo per una notte in compagnia del dolore sommerso dell’amico gay della vittima, che tenta invano di razionalizzare la follia di una morte senza causa. Una notte di panico, solitudine, con un vano incontro casuale: la vita riemerge all’alba, smarrita, da un bar. Grazie alla sofferta, introversa misura di Corso Salani, il regista esprime coerente, in un film di sottintesi e sguardi intrecciati, la sofferenza individuale ma anche lo show della sofferenza organizzata dei mass media.

Parte bene questo buio gay movie selezionato per il Forum della 54ma Berlinale. Un omicidio politico a Bologna (ovvio il riferimento a Marco Biagi, con Ivano Marescotti a fare da vittima) e un testimone che non doveva trovarsi lì e freddato. Per il compagno di quest’ultimo inizia un viaggio nell’istupidimento della lunga notte alla ricerca di un equilibrio così atrocemente e repentinamente infranto. Ma il film, sino alla scena in ospedale serrato e avvincente, progressivamente si sfalda nei tormenti e nei giri a vuoto del protagonista (un Corso Salani molto maturato come attore), che, come un percorso a stazioni, incontra vario esemplari di fauna nottambula (tra cui Giovanni Lindo Ferretti in gratuito cameo).

Un uomo di fronte all’improvvisa e tragica perdita della persona amata. Poteva essere un tema a rischio (di lacrime, di retorica, di luoghi comuni) e invece Il vento, di sera riesce a evitare tutti i pericoli e portare lo spettatore a riflettere in maniera non superficiale sulla disperazione senza spiegazioni che la morte trascina con sé. Un traguardo ancora più encomiabile, poi, se si pensa che l’amore distrutto dal caso (involontario spettatore dell’assassinio di un uomo politico, un giovane avvocato è ucciso dal killer che vuole eliminare un pericoloso testimone) è un amore omosessuale: non una scelta provocatoria ma piuttosto un espediente narrativo che incrociandosi con alcune aporie della nostra legislazione (il medico che si rifiuta di dare notizie a chi “non è un parente”) o della nostra mentalità (la madre del morto che scarica sul compagno Paolo il suo odio omofobo) permette da una parte di riflettere sul grado (insufficiente) di civiltà del nostro paese e dall’altro rende ancora più dolorosa la condizione di solitudine del protagonista. Perché il cuore del film, che segue per una interminabile notte il girovagare di Paolo attraverso Bologna (a proposito: un regista esordiente che sceglie il buio invece della luce: anche questo è un merito da non sottovalutare), il senso profondo de Il vento, di sera è proprio l’impossibilità di convincersi dell’accaduto, di fare i conti con una realtà che improvvisamente appare crudele e straziante. Il film non vuole descrivere il dolore (sarebbe “immorale” ridurlo a lacrime e lamenti) ma piuttosto farci aprire gli occhi sulla solitudine del dolore, perché a tutti forse è capitato di sfiorare il tormento di una persona senza rendersene conto, senza accorgersene. Proprio come succede ai molti personaggi che Paolo casualmente incontra, dal giornalista a chi si diverte al cabaret, e la cui superficialità diventa all’improvviso insostenibile e disumana.

Il film riesce bene nel rendere lo spaesamento di chi si trova suo malgrado legato per sempre a un evento pubblico, esemplificato dal frequente uso del suono in soggettiva e dal pendolarismo della macchina da presa fra i corpi dei due uomini a terra, accomunati dalla stessa sorte. Riesce meno bene nella parte un po’ stereotipata dell’approccio di un ragazzo con maglietta alla “Querelle”, nel riferimento un po’ facile, en passant, alla precarietà della vita degli immigrati, per non parlare dell’imbarazzante insistenza sui cellulari dei protagonisti. Ciò non toglie che il film abbia un suo fascino notturno e il coraggio di affrontare, da un punto di vista inedito, un argomento quanto mai importante e attuale. Il vento, ormai, soffia a tutte le ore del giorno.

Ecco un bel film italiano: Il vento, di sera, presentato con successo alla Berlinale. (…) Il film di Andrea Adriatico, conosciuto finora per il pluripremiato corto Pugni e su di me si chiude un cielo, ha indubbie qualità. La storia è sfortunatamente verosimile, così come i tristi addentellati – si pensi alla tremenda quanto realistica scena dell’ospedale – e il viaggio di Paolo, accompagnato solo dal suo strazio, è narrato in punta di piedi, con un minimalismo che scava a fondo nei sentimenti senza essere retorico. In questo stile asciutto, che porta a galla l’essenza del dolore, tutto funziona bene, dalla recitazione alla fotografia che esalta l’asetticità di una città notturna inospitale e fredda. Peccato che l’idea di base non sia stata sviluppata ulteriormente e che le persone incontrate da Paolo siano lacerti un po’ approssimativi di un percorso incidentale e non essi stessi fonti di introspezione. Ma, al di là di qualche difetto – ad esempio, le diverse inflessioni dialettali che, lungi dallo spersonalizzare la città, finiscono col dare un tono un po’ macchiettistico – il film colpisce con la normalità con cui viene descritta la coppia Paolo/Luca, rara nel cinema italiano, e per la profondità con cui fa riflettere sul fatto che basta una zaffata di vento contraria (quella a cui si riferisce Bernard-Marie Koltès ricordato nei titoli di testa: “basta un poco di vento a farci volare via”), per distruggere irrimediabilmente delle vite.

(…) Cinema di corpi, di messa in scena che fa perno e si ricentra su essi, quello di Andrea Adriatico; cinema del dolore, dell’assenza e cinema gay, che rivendica spazio all’identità omosessuale. Il vento, di sera, esordio nel lungometraggio di Adriatico (…) segna una nota di corroborante dissonanza rispetto alle convenzioni del nostro fare cinema. A cominciare da una produzione risolutamente indipendente, che non elemosina contributi all’interesse culturale nazionale, gira in digitale e, integra e liberata dal condizionamento di mercato, sceglie la circuitazione marginale di una distribuzione dedicata. La via alternativa, antagonista alle strutture dell’industria del cinema italiano, de Il vento, di sera si sustanzia in una ruvida alterità linguistica che lo colloca in una posizione a sé nel nostro panorama cinematografico, defilata ed impervia, coraggiosa e dirompente. Come Martone e Bene, Adriatico è uomo di teatro, teatro non parruccone o istituzionale, fondatore della compagnia :riflessi (1991) e di Teatri di Vita (1992), che si presta a ed esplora il mezzo cinema. Paradosso: nelle dialettiche iniezioni di chi s’è fatto sulle tavole del teatro si riscoprono, in un cinema italiano apparentato e compromesso da codici e remore depauperanti della televisione, complessità, multidimensionalità e sperimentazione di una messa in scena di cinema-cinema.
Movimenti di macchina, recitazione, lavoro sul sonoro e definizione di spazio e tempo ne Il vento, di sera prendono parte attiva in una vivida meccanica planetaria che ruota attorno al dato materiale e astratto dei corpi; corpi d’attore certo, ma ancor più corpi di carne e sangue, vivi e pulsanti, e, in ragion di questo, oggetti caduchi, pronti a dissolversi nell’istante. Adriatico – che ha certo ben presente il sodalizio Koltès-Chéreau, nonché il cinema di corpi di quest’ultimo – li filma in prossimità inaudita per il nostro cinema recente, li tallona, li ausculta, vi aderisce, vi danza intorno, ne penetra e dischiude il mistero, senza falsa pudicizia. In funzione del periplo tutto interiore di Paolo, Adriatico sfalda la topografia di una città (Bologna, mai esplicitamente menzionata), ridisegnandola in una slabbrata fluttuazione onirica. Il tempo si dilata, sospende, imprigionando nell’incredulità dell’incubo corpi sfiancati dal sonno, dall’afa, dal desiderio, dal peso di una solitudine che è soffocamento dell’anima.
E’ il corpo di Francesca che in un magistrale piano sequenza fende lo spazio, pochi metri, mille chilometri, e rimbalza sulla barriera sonora che separa il corpo del film dal suo pre-testo: la morte di Luca, l’assassinio di Raimondi. Il caso Biagi, esplicito riferimento pubblico, politico, contingente della sceneggiatura di Adriatico e Stefano Casi, è il prisma in cui si origina e rifrange l’essenza individuale e universale del film: il dolore della perdita, la ricerca di un fantasma, l’elaborazione del lutto. In un allucinato paesaggio di solitudini urbane, il Paolo di un intensissimo Corso Salani, unico che solo non era, insegue allo sfinimento un’ombra che dissolve nel lucore mattutino: l’altro, Luca, parte complementare di un tutto, rapita dal vento di sera (“Legati fragilmente al filo della vita come foglie che basta un poco di vento a far volare via“, la citazione da Koltès posta in esergo al film). Paolo scortica le nocche su un muro, come juliette Binoche nel Film blu di Kieslowski, epitome di un cinema della perdita, rifiuta la condivisione di una pena troppo grande per essere detta e indugia alle lusinghe del desiderio, per poi rifiutarle: stazioni che instradano all’accettazione di un addio e di un nuovo sé, mutilo, dimezzato.
Il vento, di sera è però pure il primo vero film gay italiano da tempo immemore. Non tanto perché sulla dorsale del tema universale della perdita Adriatico innesta le costole di una doverosa, quanto scolastica, critica sociale al mancato riconoscimento, non solo istituzionale, delle coppie di fatto: è l’aspetto meno riuscito del film, quello più volontariamente didascalico. L’interesse vero dell’elemento omosessuale de Il vento, di sera è lo sguardo dell’autore, la definizione di corpi, personaggi e dinamiche tra essi che ne scaturisce; Adriatico non media, per tema del mainstream, come Ozpetek: il suo è un film gay senza compromessi, senza ipocrite titubanze. A farne spese è il femminile: filtro irrinunciabile per guardare all’omosessualità in Ozpetek, in Adriatico la donna (Francesca) è necessaria ad una definizione contrastiva dell’identità omosessuale. L’inevitabile passaggio attraverso la misoginia per la specificazione di una singolarità gay, altrove percorso e superato da decenni, viene ora necessariamente (ri)vissuto (da Adriatico, come pure in parte da L’imbalsamatore di Garrone) in un cinema italiano ancorato ad un Paleolitico della rappresentazione dell’omosessualità. Sia il benvenuto, allorché si accompagna ad una riuscita di cinema tout court composita e stimolante quale Il vento, di sera.

Eccellente metafora della condizione dei gay drammatizzata dalla perdita avvertita dalle vittime del terrorismo, Il vento, di sera di Andrea Adriatico crea immediatamente un’atmosfera avvincente che non cala mai fino alla sua conclusione magnificamente riflessiva. Segno potente di un cinema italiano rinvigorito, il film parla al più vasto pubblico europeo che sperimenta l’aumento del terrorismo interno mentre si confronta con i temi della discriminazione nei confronti dei gay. Fredde, generalmente effettuate a spalla, le riprese notturne evocano immagini ipnotiche che accompagnano un racconto semplice e umano. Le migliori prospettive commerciali sembrano essere nei mercati urbani di alto livello e nei festival nordamericani.
Piuttosto che osservare le cause e gli effetti sociali del delitto politico, come accade in film italiani come Lettera aperta a un giornale della sera di Francesco Maselli o Buongiorno notte di Marco Bellocchio, Adriatico (con il co-autore Stefano Casi) si concentra qui su una persona amata dalla vittima e sopravvissuta.
Questa permanenza dall’inizio della sera fino all’alba, attraverso le strade di Bologna, assume una qualità sua propria, così che alla fine le questioni centrali del Vento vengono sviluppate in una direzione del tutto differente rispetto a quello che le scene iniziali suggerivano. Il fattore tempo e il sentimento del girovagare evocano memorie di film differenti ma chiaramente influenti come La dolce vita di Fellini La notte di Antonioni. Tuttavia Adriatico, veterano regista teatrale con tre cortometraggi al suo attivo, afferma una voce personale nel suo bel debutto.
La citazione dell’autore francese B. M. Koltès “Basta un po’ di vento per farci volar via” introduce il racconto, che inizia con un montaggio di primi piani di enigmatici messaggi su telefoni cellulari. Paolo attende l’arrivo del suo partner Luca (Luca Levi), mentre da un’altra parte il più anziano Marco pedala verso casa. Le immagini granulose e una regia nervosa, perfettamente accompagnata dallo snervante contrabbasso pizzicato nella colonna sonora di Roberto Passuti creano un’atmosfera di tensione.
All’improvviso Marco viene ucciso all’entrata del palazzo in cui abita, verso cui anche Luca si sta dirigendo. E Luca, passante e testimone innocente, viene colpito alla schiena. I titoli di testa compaiono a 19 minuti buoni dall’inizio, subito dopo una straordinariamente lunga carrellata sulle stordite reazioni alla sparatoria e sullo shock subito da Paolo e dall’affettuosa vicina Francesca (Francesca Mazza).
Adriatico nega agli spettatori quelle informazioni che Paolo non saprebbe: il suo essere lasciato all’oscuro sulle condizioni di Luca da parte dei medici dell’ospedale è doppiamente impressionante perché Paolo, a cui non è riconosciuto il diritto di essere il compagno di Luca per la lagge italiana, non è un parente. Solo dopo aver ascoltato per caso un giornalista Paolo apprende che Luca era morto all’arrivo.
Più avanti Paolo apprende da un telegiornale visto su una televisione nella vetrina di un negozio che Marco era un sottosegretario del governo e che è stato ucciso dai terroristi. Le notizie arrivano tanto rapidamente quanto facilmente vengono tralasciate, ma il loro valore consiste nel rendere insignificante la perdita di Paolo mentre egli vaga incespicando per le strade di Bologna, i cui silenzi sono regolarmente feriti dall’urlo delle sirene. La sua situazione peggiora dopo un’amara conversazione telefonica con la madre di Luca (Marina Pitta), che gli ordina di lasciare l’appartamento condiviso da lui e da suo figlio.
Nel frattempo, Francesca assume su di sé il dolore di Paolo quasi come se Luca fosse il suo stesso compagno e intraprende la sua personale forma di trascinamento notturno, ma con molto minore impatto emotivo.
Un incontro casuale tra Paolo e un uomo solitario di nome Momo (Fabio Valletta) conduce a un inatteso spettacolino in un bar gay, dove il film punta brevemente a un più esplicito tema politico. Le cose finiscono su una nota alla Antonioni quando Paolo, dopo aver letto i titoli che confermano il duplice omicidio, vaga in un parco all’alba, solo e in meditazione.
L’effetto finale è quello di una quasi perfetta storia circolare, la cui fine aperta non avrebbe potuto essere stata prevista, eppure sembra il risultato di una ricerca naturale, misteriosa e insicura. Come espressione di un gay urbano contemporaneo alla ricerca di un significato in mezzo al caos, Il vento contiene una universalità che preannuncia una duratura opera d’arte.
Il Paolo di Salani parte in modo dimesso e costruisce un’intensità che raggiunge una fioritura emotiva nei momenti finali. Mazza dà forma a Francesca con più paura di quanto sembri giusto. Le brevi apparizioni di Ferretti, Pitta e Paolo Porto come proprietario del caffè sono potenti, mentre il Momo di Valletta è ben equilibrato.
Nella combinazione di compositore, montatore e autore della colonna sonora, Passuti fornisce contributi indispensabili, creando tessiture sonore complesse e stabilendo il ritmo del film in un modo che rimane.

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